PARMA & PIACENZA | ITALY | 2011/2012
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Da Durazzo a Busseto: felice itinerario sulle orme di Peppino Verdi
Eugenio Riccòmini (per Linda Vukaj)
Certo ch’è abbastanza strano, insolito: una ragazza che ha fatto studi severi, di scienze fisiche, di matematica avanzata, ma al di là di quel breve ma per decenni invalicabile braccio d’Adriatico ove si parla il solo linguaggio dalmatico sopravvissuto, e che nessuno di noi è in grado d’intendere; in una terra bella ma aspra, ottomana per secoli e in prevalenza musulmana fino ad oggi, irta di bunker in cemento con piazzole per cannoni, a difesa della propria estraneità a chi sta di fronte; una ragazza avvenente e col riso sulle labbra, ora italiana come e forse più d’ognuno di noi, che s’aggira per la brumosa Bassa padana come se ci fosse nata e cresciuta, e ritrae senza posa, con vitalissima curiosità, filari di pioppi in golena, e cascine, e stallatici, e pollai, e volti ormai fuori tempo di vecchi mezzadri all’osteria, che giocano a carte davanti a un bicchiere di vino, e che la sera, rientrando, sono in grado d’accennare a memoria arie d’opera lirica di quel loro compaesano noto in tutto il mondo, ma di cui in ogni teatro d’Europa, delle Americhe, del Giappone nessuno conosce il dialetto che parlava, la terra fertile che amava e di cui infine era entrato in possesso, la rustica radice contadina e popolare che dava vita e sentore di vero ai libretti a tratti anche mediocri che investiva con le sue melodie, con il fragore dell’orchestra, con il fiato ora possente ora quasi sussurrato dei cori…
Linda Vukaj (che ora porta anche un bel cognome toscano, versigliese, ch’è anche il mio) non era neppure nata, credo, quando Carlo Bavagnoli vagava per le terre di Verdi scrutando le stesse brume, gli stessi volti, gli orizzonti velati e lontani che poi superbamente illustrò, quasi quarant’anni fa, accompagnando le immagini con le parole sussurrate e alate di Attilio Bertolucci, di Gian Paolo Minardi; e fu un commosso omaggio di Parma al musicista prediletto dal suo loggione, e da tutti. E s’è messa per la stessa strada, per lo stesso viottolo di campagna, tra la polvere dell’estate e il fango invernale, puntando l’obbiettivo verso argini, lanche, e facce stanche o rubizze di chi in quei luoghi passa la vita e ogni giornata di lavoro o di festa. S’è felicemente immersa, e quasi s’è persa, in quel mondo rurale disteso in una monotonia senza fine, entro un paesaggio privo di sorprese e di esplicite bellezze; trovando la bellezza, si direbbe, proprio in quel lento progredire dei viottoli, nelle curve ampie e lente del fiume (il solo che abbiamo, da queste parti, placido e talora terribile), nei selciati umidi dei borghi, che rilucono d’umidità sotto la luce dei lampioni. E, scattando immagini di singolare fascino, ha conversato con i personaggi (che Zavattini avrebbe amato) di quella “comédie humaine” attorno a cui fa crocchio la gente nei paesi della Bassa: il pizzicagnolo esperto in grasse golosità, che entro la bottega non ha cambiato neppure la disposizione d’un barattolo da quando il locale lo gestiva suo nonno, naturalmente commentando anche allora l’ultima esecuzione verdiana; il cultore di storia locale, con la sua sciarpa, che bonariamente ti spiega e racconta, accompagnando la voce col gesto lento della mano, segreti e pettegolezzi di cent’anni fa, perlopiù ignoti ai professori in toga; gli amici da sempre, ormai in età, che brindano alzando non il bicchiere, ma la scodella del vino, come da noi s’usava; e il caffè del paese, col solito ritratto del Maestro schizzato dalla mano nevrotica e infallibile di Boldini, altro figlio della Bassa padana che, come Verdi, mieteva successi indicibili a Parigi e in ogni capitale; e la bottega del barbiere, con la porta a vetri col ritratto del grande Peppino a far da insegna, ben in vista.
È il ricordo di questa gente che Verdi s’è portato dietro, senza mai farne parola a nessuno, per tutta la vita; e sono questi, credo, gli attori che si celano, e rivivono, nei personaggi che la sua musica mette in scena: con le stesse passioni, le stesse allegrie, gli stessi dolori, o invidie, o rancori, o vendette; con la stessa credibile popolare vitalità. Linda queste cose le ha intuite, e comprese. E sa, quindi, che l’opera lirica è stata, almeno per un paio di secoli, la rappresentazione del vivere, con ogni sua sublimità, con ogni nefandezza, con ogni mediocrità, con ogni nostalgia. È per questo che, tra le immagini che abbiamo sotto gli occhi, non manca, appunto, il teatro, e ciò che a teatro non si vede perché sta dietro le quinte: e infatti c’è il maestro che addestra e ammonisce i coristi, e la corista che davanti allo specchio s’aggiusta cappellino e acconciatura, e quella che ripassa lo spartito, e il danzatore atleta che s’inerpica nel vuoto, e le meraviglie dipinte della scenografia, e ancora, e ancora.
Nascere di qua, o di là di quel braccio di mare, insomma, non cambia granché, visto che la gente gioisce o patisce sempre allo stesso modo. Giuseppe, o Peppino Verdi, lo sapeva bene; per questo lo capivano al di là d’ogni confine, e d’ogni oceano. E lo sa altrettanto bene anche Linda. Lo si vede da tutte queste sue immagini.
Eugenio Riccòmini
Bologna, 2 novembre 2013
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